Qualche anno fa ho letto in un rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro che quello del giornalista è uno dei mestieri più pericolosi al mondo. C’era scritto che solo i collaudatori di nuovi aerei rischiano di più. Non ricordo se l’indagine prendesse in considerazione anche i cacciatori di coccodrilli o le guardie del corpo, ma lo studio era stato condotto negli anni novanta. Quando ancora non esistevano i blogger.
Erano i tempi in cui sognavo di diventare una giornalista. Già mi vedevo saltare da un aeroporto all’altro, con un macchina fotografica al collo e un microfono in mano puntato verso presidenti e stelle del cinema, mafiosi e giudici, vescovi e ambasciatori. Mi immaginavo presa dal panico davanti alla pagina bianca, cercando di nascondermi dal direttore, che mi cercava infuriato fino all’ora di chiusura. Fantasticavo di scrivere reportage memorabili e articoli di cronaca indimenticabili, e di svelare scandali e corruzione.
Erano i tempi in cui sognavo di diventare una giornalista. Già mi vedevo saltare da un aeroporto all’altro, con un macchina fotografica al collo e un microfono in mano puntato verso presidenti e stelle del cinema, mafiosi e giudici, vescovi e ambasciatori. Mi immaginavo presa dal panico davanti alla pagina bianca, cercando di nascondermi dal direttore, che mi cercava infuriato fino all’ora di chiusura. Fantasticavo di scrivere reportage memorabili e articoli di cronaca indimenticabili, e di svelare scandali e corruzione.
Poi non riuscii a entrare alla scuola di giornalismo dell’università dell’Avana e il mio sogno svanì. Ma il senso di frustrazione passò presto, quando conobbi un giornalista che era stato cacciato da un quotidiano nazionale perché aveva scritto quello che pensava.
Chi fa il giornalista a Cuba non corre gli stessi rischi di chi fa informazione in Messico o in Colombia. Da noi i reporter non vengono uccisi né sequestrati. Semplicemente gli avvelenano il lavoro. Perché eliminare fisicamente qualcuno che scrive verità scomode se lo si può cancellare con il pennarello rosso del censore? Perché ucciderlo quando si hanno tutti i mezzi per addomesticarlo?
La morte professionale non incide sulle statistiche, e ad aumentare è solo la frustrazione di chi, come me, un tempo pensava che il suo destino fosse legato all’informazione. A Cuba chi sceglie di fare il giornalista sa che tutti i mezzi d’informazione sono nelle mani del potere, che lo si voglia chiamare stato, partito unico o líder máximo. Sa che dovrà dire sempre quello che è conveniente e necessario, e che dovrà farlo con devozione ed entusiasmo.
Chi fa il giornalista a Cuba non corre gli stessi rischi di chi fa informazione in Messico o in Colombia. Da noi i reporter non vengono uccisi né sequestrati. Semplicemente gli avvelenano il lavoro. Perché eliminare fisicamente qualcuno che scrive verità scomode se lo si può cancellare con il pennarello rosso del censore? Perché ucciderlo quando si hanno tutti i mezzi per addomesticarlo?
La morte professionale non incide sulle statistiche, e ad aumentare è solo la frustrazione di chi, come me, un tempo pensava che il suo destino fosse legato all’informazione. A Cuba chi sceglie di fare il giornalista sa che tutti i mezzi d’informazione sono nelle mani del potere, che lo si voglia chiamare stato, partito unico o líder máximo. Sa che dovrà dire sempre quello che è conveniente e necessario, e che dovrà farlo con devozione ed entusiasmo.
Il giornalismo a Cuba comporta quindi un rischio enorme, ma solo per la coscienza dei giornalisti.
Naturalmente vengono offerte anche delle buone opportunità, perché l’alone mistico che circonda la professione la rende affascinante agli occhi di persone interessanti, permette di frequentare funzionari importanti, di quelli che risolvono problemi e fanno favori. Un giorno si presenta la possibilità di un viaggio, e il reporter di provincia si trasforma in un uomo di mondo che parla di Parigi come se ci fosse nato e commenta usi e costumi di tutti gli angoli del mondo. Ha venduto la sua penna o la sua tastiera per avere privilegi e comodità che non hanno niente a che fare con il suo impulso originario di raccontare quello che succede intorno a lui. È proprio in quel momento che comincia a diventare indifeso. Proprio come il corrispondente che muore in Afghanistan o il fotografo che perde la vita ucciso dai narcotrafficanti di Bogotá.
Naturalmente vengono offerte anche delle buone opportunità, perché l’alone mistico che circonda la professione la rende affascinante agli occhi di persone interessanti, permette di frequentare funzionari importanti, di quelli che risolvono problemi e fanno favori. Un giorno si presenta la possibilità di un viaggio, e il reporter di provincia si trasforma in un uomo di mondo che parla di Parigi come se ci fosse nato e commenta usi e costumi di tutti gli angoli del mondo. Ha venduto la sua penna o la sua tastiera per avere privilegi e comodità che non hanno niente a che fare con il suo impulso originario di raccontare quello che succede intorno a lui. È proprio in quel momento che comincia a diventare indifeso. Proprio come il corrispondente che muore in Afghanistan o il fotografo che perde la vita ucciso dai narcotrafficanti di Bogotá.
Ma da una ventina d’anni sulla nostra isola esiste un altro tipo di giornalista. L’aggettivo “indipendente” lo distingue da tutti gli altri. Affronta rischi diversi, sfrutta altre opportunità. Ovviamente non ha seguito nessun corso di giornalismo, ma ha imparato a raccontare quello che nascondeva la stampa di partito. È diventato uno specialista delle denunce. Osserva il lato nascosto della storia.
Nella primavera del 2003 tutto quello che sembrava semplicemente pericoloso o rischioso si è trasformato in una punizione: molti di questi giornalisti indipendenti sono stati arrestati e condannati a scontare pene di dieci, quindici o vent’anni. La maggior parte di loro è ancora in carcere.
Nella primavera del 2003 tutto quello che sembrava semplicemente pericoloso o rischioso si è trasformato in una punizione: molti di questi giornalisti indipendenti sono stati arrestati e condannati a scontare pene di dieci, quindici o vent’anni. La maggior parte di loro è ancora in carcere.
Noi blogger siamo arrivati dopo, anche perché a Cuba la tecnologia si è diffusa molto lentamente. Probabilmente le autorità non immaginavano che i loro cittadini l’avrebbero usata per raccontare punti di vista alternativi. Il governo controlla le telecamere degli studi televisivi, i microfoni delle stazioni radio, le pagine delle riviste e dei periodici di tutta l’isola. Ma ecco che una rete globale e invisibile, demonizzata ma imprescindibile, offre a chiunque lo voglia la possibilità di comunicare le sue opinioni in modo praticamente illimitato.
Ci hanno messo un po’ a capirlo, ma ora se ne stanno rendendo conto. E sanno che per mettere a tacere un blogger non possono usare gli stessi metodi con cui hanno ridotto al silenzio tanti giornalisti. Questi impertinenti del web non possono essere licenziati dalla redazione di un giornale. Né gli si può promettere una settimana sulla spiaggia di Varadero o un’automobile Lada come ricompensa. E meno che mai, oggi, comprarli con un viaggio in Europa orientale o nella Germania di Honecker. Per fermare un blogger bisogna eliminarlo. Lo stato cubano, il partito unico e il líder máximo l’hanno capito.
Yoani Sánchez è una blogger cubana. Il suo blog è tradotto in quattordici lingue, tra cui l’italiano. Vive all’Avana, dove è nata nel 1975. In Italia ha pubblicato Cuba Libre (Rizzoli 2009). Scrive una rubrica settimanale per Internazionale.
1 commento:
Accidenti... Non pensavo potesse essere così in quella bellissima isola (ci sono stato nel lontano 1999...).
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