domenica 11 aprile 2010

acqua privata o pubblica?

Sono assolutamente contrario alla privatizzazione dell'acqua...
Era il 17 Novembre dell’anno scorso quando lo Stato italiano "creava" la legge che nell’articolo 23 bis sancisce definitivamente il passaggio al settore privato della gestione dei servizi al
cittadino, gestione che fino a quel momento era stata ufficialmente pubblica (si fa per dire, come vedremo in seguito). Fra i servizi interessati uno dei più discussi è quello della distribuzione dell’acqua.
La decisione a livello politico appare in pieno accordo con la tendenza generale europea (salvo qualche raro esempio al contrario). La motivazione ufficiale di questa transizione è che la gestione dell’acqua è estremamente onerosa e gli stati (in questo caso quelli europei) non sono più in grado di far fronte alla spesa. Che il passaggio a una gestione privata risolva il problema è però tutt’altro che scontato.
Andiamo per ordine.Con la privatizzazione è cambiato qualcosa? Innanzitutto c’è da sfatare la
convinzione che prima di novembre dell’anno scorso l’acqua fosse universalmente (nel nostro paese)gestita in maniera pubblica. In moltissimi comuni italiani infatti era già in mani sostanzialmente private. Qual è il trucco? Di fatto molti acquedotti (per fare gli esempi più celebri quello romano e quello pugliese) negli ultimi anni sono stati trasformati in S.p.A., e quello romano è stato addirittura quotato in borsa. Pur rimanendo (per legge) a maggioranza pubblica, molti acquedotti italiani sono per forza dovuti entrare nella logica del profitto.
Tutto ciò ha creato situazioni paradossali, come il caso paradigmatico dell’area romana. “Quando c’è stato il passaggio ad ACEA (l’S.p.A. che gestisce l’acquedotto a Roma e nei più di cento comuni li intorno) i sindaci sono stati colti alla sprovvista, vuoi per ignoranza o per poca presenza di spirito, e hanno firmato un accordo per cui ogni comune si accontentava di avere una sola azione a testa,” spiega Astrid Lima del Comitato Velletri Acqua Pubblica.”Questo significa che ogni comune controlla solo lo 0,0000003% della società e anche mettendosi tutti insieme non superano il 2%.”
In parole semplici questo significa che i comuni dell’aera romana non hanno nessuna voce in capitolo per quel che riguarda la gestione dell’acqua. Il comune di Roma invece controlla circa 36 milioni di azioni (il 51%). “Il disequilibrio è evidente,” continua Lima. Come se non bastasse ACEA negli anni ha dimostrato ben poca trasparenza e collaborazione “Basti pensare che i risultati delle analisi delle acque, che dovrebbero essere pubbliche, non sono disponibili e questo semplicemente perché, trattandosi di una società per azioni, vige il segreto industriale”. E l’area dei comuni romani è particolarmente sensibile (essendo di natura vulcanica, presenta alti livelli di arsenico nelle falde acquifere), per cui conoscere i valori chimici delle acque nella zona è vitale per la salute dei cittadini.
Anche i presupposti vantaggi per l’utenza stentano ad arrivare. “A Velletri abbiamo sempre pagato l’acqua carissima, ma con l’entrata di ACEA (ufficialmente nel 2006) avremmo dovuto essere adeguati alla tariffa della capitale – che corrisponde a circa un terzo della nostra tariffa. Questo è scritto in un documento ufficiale che stabiliva che le nuove tariffe sarebbero dovute entrare in vigore dal 2007. Dopo una battaglia interminabile siamo riusciti ad avere l’adeguamento quest’anno, ma non c’è stato ancora alcun rimborso per i due anni precedenti, e temo che sarà molto difficile ottenerlo.”
Anche l’acquedotto pugliese ha subito la stessa sorte di quello romano e nel 1999 con un decreto
legislativo è stato trasformato in una S.p.A. “Come si legge nei dati del rapporto Co.VI.RI., la
commissione nazionale di vigilanza sulla risorsa idrica, del 2008 (che si riferiscono al triennio 2004-2006) l’investimento è stato talmente ridotto (circa il 10% di quello che era stato previsto), che è riuscito a deprimere il dato nazionale” come ci spiega Margherita Ciervo ricercatrice presso il dipartimento di Scienze Geografiche e merceologiche dell’Università di Bari e autrice del libro Geopolitica dell’acqua. “E le tariffe sono aumentate.”
Ma se tante sono le voci contrarie, perché molti ritengono che l’acqua debba essere gestita dal
privato? Perché in fondo, come dice lo stesso testo del decreto Ronchi non garantire “concorrenza, libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi” al fine di ottenere, proprio attraverso il meccanismo della concorrenza, un servizio migliore?“L’acqua non è un bene uguale agli altri, l’acqua è fondamentale per la vita,” spiega Paolo Carsetti, Segretario del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua. “Cosa succede se un ente privato
non riesce più a sostenere i costi (ingenti) richiesti da questi impianti? Le condizioni dei
lavoratori del servizio idrico peggiorano poiché i primi tagli vengono fatti proprio a scapito di coloro che quotidianamente garantiscono che dai nostri rubinetti fuoriesca acqua di buona qualità.Di conseguenza la qualità del servizio erogato ne risente nel suo complesso e gli sprechi di acqua aumentano – visto che le reti continuano ad essere dei colabrodo.”
E poi, cosa succede se un cittadino non è più in grado di pagare la bolletta? Gli si chiude l’acqua in casa? L’acqua potabile è uno dei diritti inalienabili dell’uomo, e ciascun essere umano ha diritto a una vita dignitosa. Se l’acqua diventa merce però finisce per sottostare alle regole del mercato, e chi non può pagare non se la potrà permettere.
La questione è delicata: in questi tempi di crisi gli stati non ce la fanno più e la tendenza
generalizzata in Europa è quella di privatizzare. Carsetti è scettico: “Privatizzare non è la
soluzione, come dimostrano casi come quelli dell’Ato 5 (Provincia di Frosinone) e Ato 4 (Provincia di Latina) del Lazio. E infatti stiamo assistendo ad alcune sorprendenti inversioni di tendenza come quella parigina: dopo venticinque anni di gestione privata, la capitale francese è tornata al pubblico.”
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