Politica e finanza non vogliono un default della compagnia petrolifera. Ma i nuovi soldi potrebbero arrivare da ospiti sgraditi
"Too big to fail". Echeggiando il famoso motto obamiano che portò al salvataggio con soldi pubblici degli istituti finanziari al collasso, ci si chiede ora se Bp, responsabile del disastro ecologico nel Golfo del Messico, non sia per caso troppo grande per fallire.
Nel sito d'informazione finanziaria "Zero Hedge" è comparso per esempio un commento secondo cui il default di Bp sarebbe più sciagurato di quello di Lehman Brothers. In tal caso, "l'azzeramento dei prodotti derivati di lungo termine su petrolio, prodotti raffinati e gas naturale potrebbe essere catastrofico. Si rifletterebbe sul sistema bancario. Quanto sono esposte la divisone J. Aron di Goldman, Morgan Stanley e Jpm? Probabilmente parecchio".
Anche le compagnie che in qualche modo da Bp dipendono attraverso i meccanismi del credito e delle forniture ne sarebbero colpite: piccole società energetiche, compagnie aeree, armatori, autolinee, ferrovie.
L'impatto sarebbe così ampio da consigliare il salvataggio politico di Bp.
Ed eccola, la politica: anche se ha imposto alla corporation di Londra un fondo di garanziache le costerà 5 miliardi di dollari l'anno e che servirà a rimborsare sul medio-lungo periodo individui e imprese che hanno subito danni dalla fuoriuscita di petrolio, il presidente UsaObama concorda con il Primo ministro britannico Cameron sulla necessità di ripulire il Golfo e sanare i danni senza mettere Bp con le spalle al muro.
Da parte sua, per raccogliere i 32 miliardi di dollari necessari a coprire i costi parziali della fuoriuscita di Macondo e sanare 17 miliardi di perdite finanziarie, la compagnia britannica sta in questi giorni muovendosi in più direzioni.
Il primo passaggio obbligato è la cessione di azioni. Il maggiore acquirente di quote è finora la petrolifera statunitense Apache, a cui Bp ha già venduto partecipazioni nelle attività estrattive in Texas, Canada ed Egitto per 7 miliardi di dollari. In vista ci sono ulteriori cessioni in Vietnam e Pakistan.
Fin qui tutto bene, anche politicamente.
Tuttavia in questi giorni il dimissionario amministratore delegato Tony Hayward sta sondando diversi governi stranieri alla ricerca di un fondo sovrano che decida di investire nella compagnia. E allora il quadro si complica.
Tra i papabili nuovi investitori c'è l'Azerbaigian, Paese nel quale Bp ha già investito miliardi tra giacimenti di gas, petrolio, trasporti e infrastrutture. Lo State Oil Fund of Azerbaijan (Sofaz) dovrebbe diventare suo azionista.
C'è poi l'Egitto, dove una joint-venture tra la compagnia londinese, la tedesca Dew e il governo locale dovrebbe sviluppare alcuni giacimenti off-shore. La Egyptian Natural Gas Holding Company - che nell'accordo hai il 50 per cento delle quote - potrebbe a questo punto ampliare le proprie partecipazioni.
Anche la Kuwait investment Authority (Kia) ha quote di Bp, anzi, nel 1987 aveva tentato la scalata alla compagnia in vista di una sua privatizzazione. Fu lo stesso governo britannico ad opporsi.
Il problema vero arriva con il quarto possibile partner, cioè la Libia.
Bp è accusata da ambienti del congresso Usa di aver fatto pressioni sul governo scozzeseper il rilascio di Abdelbaset Ali al-Megrahi - riconosciuto colpevole dell'attentato di Lockerbie (1988) in cui morirono 270 persone - ed effettivamente liberato un anno fa.
L'attività di lobbying sarebbe collegata a un accordo siglato nel 2007 tra la compagnia energetica e il governo libico per lo sfruttamento di giacimenti nel Golfo della Sirte. Il congresso Usa preme per un'inchiesta parlamentare.
L'eventuale ingresso della Libia nel capitale azionario non piacerebbe né a Washington né a Londra.Articolo di Gabriele Battaglia da peacereporter
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