Indipendenza. I più anziani l'hanno pregustata
per quasi 60 anni, l'hanno immaginata e raccontata per decenni a figli e
nipoti. L'attesa è finita, il grande giorno è arrivato sabato 9 luglio
ed è nato il Sud Sudan, come deciso dal referendum
dello scorso gennaio. Con i suoi nove milioni di abitanti e una
superficie territoriale pari a quella di Kenya, Uganda e Tanzania messi
insieme, non è lo stato più piccolo ma è sicuramente il più fragile del
continente. Il suo futuro è impastato col sangue versato nelle due
guerre civili combattute tra il 1955 e il 2005 (con una parentesi di
pace tra il 1972 e il 1983) contro i sudanesi del nord e costate due
milioni di morti e oltre quattro milioni di sfollati. E' un grosso punto
interrogativo, un'equazione difficile da risolvere. C'è un entusiasmo
incontenibile per le strade di Juba, la nuova capitale che non ha nulla
di una città e infatti è definita il più grande villaggio del mondo. E
c'è la paura che provano tutti coloro che sanno che i fantasmi del
passato non sono fantasmi e non sono passati. Uno di questi ha un nome e
cognome: si chiama
Omar al Bashir,
è il presidente del Sudan, e sarà presente durante la cerimonia
inaugurale, invitato d'eccezione. Siederà accanto al suo omologo
sudsudanese,
Salva Kiir Mayardit, famoso per i cappelli a larghe falde
à-la texana, ospite d'onore ma anche ingombrante che si presenterà con il ramoscello di ulivo in mano e un esercito che ha già preso possesso del
distretto petrolifero di Abiyei, territorio conteso, ed è schierato in forze lungo la problematica frontiera.
Al memoriale intitolato all'eroe dell'indipendenza sud sudanese,
John Garang de Mabior, sfileranno ospiti di riguardo come il ministro degli Esteri britannico,
William Hague, quello francese,
Alain Juppè, il Segretario generale delle Nazioni Unite
Ban Ki-moon, l'ex Segretario di Stato americano
Colin Powell e il generale
Carter Ham,
comandante in capo di Africom, il centro di pianificazione strategica
dell'esercito americano per l'Africa. Cammineranno su un tappeto rosso
sotto il quale sono stati nascosti diversi problemi, troppi perché
passino inosservati. Uno è la questione di Abiyei, dove, dopo
l'invasione dell'esercito sudanese, adesso è schierato un contingente di
4200 caschi blu eritrei del contingente di pace targato Onu
dell'Unisfa. Poi c'è la
questione del Kordofan meridionale e del Blue Nile,
vilajet
sudanesi che rimarranno al nord, pur avendo una popolazione che in
buona parte è nera e cristiana o animista e nelle guerre civili ha
combattuto contro Khartoum, che ora va regolando i conti nel timore di
future richieste di autonomia. Alcuni comboniani, in una lettera al
governo italiano al popolo, giovedì hanno denunciato il
genocidio commesso dall'esercito sudanese ai danni delle popolazioni nere dei monti Nuba, presunti fiancheggiatori dell'Splm/a, il
Sudan People's Liberation Movement/Army,
il partito politico e il suo braccio armato che hanno preso il potere a
Juba. I satelliti, poi, hanno fotografato movimenti di
mezzi militari verso il Kordofan meridionale: un
convoglio lungo un paio di chilometri per un migliaio di truppe in
avvicinamento. Un accordo tra le parti era stato trovato ad Addis Abeba
il 29 giugno, grazie alla mediazione dell'Unione Africana, ma a due
giorni dall'indipendenza al Bashir ha detto di non riconoscerlo più e ha
duramente criticato il suo rappresentante, Nafi Ali Nafi, che lo aveva
sottoscritto. Un'altra questione insoluta.
Sul Kordofan meridionale Khartoum non cederà, perché è lo stato
petrolifero più ricco che rimarrebbe al Sudan dopo la secessione del
sud, nel cui territorio si trova il 75 per cento delle risorse
petrolifere del Paese, i cui proventi sono attualmente divisi al 50 per
cento, perché Juba ha il petrolio ma il nord ha le pipeline, le
raffinerie e i terminali. Un accordo in materia non è ancora stato
trovato. Il petrolio oggi vale il 98 per cento del Pil sud sudanese,
pari a 1,5 miliardi di dollari. C'è petrolio ma manca la benzina, segno
inquietante. Nel Sud Sudan si vive una
crisi energetica
di cui non si capisce la causa. Voci autorevoli dicono che Juba stia
stoccando riserve in vista di una nuova guerra con Khartoum e che per
questo il carburante sia sparito dalla circolazione. Guerra che, giurano
ai vertici del futuro esercito sud sudanese, potrebbe estendersi subito
lungo la frontiera fino ad
esplodere in un fronte unico che arriverebbe al Darfur
Ma i segni di sventura viaggiano sempre in coppia, e così ecco che a
una settimana dall'indipendenza, esattamente il 2 luglio, muore
Malual Wuon Kuoth,
grande capo della comunità Nuer dello stato di Unity, leader in carica
per 66 anni, dal tempo dell'amministrazione britannica, figura
fondamentale nel mediare con le comunità Dinka che vivono negli stati di
Lakes e Warrap. C'è anche una minaccia interna, che si allunga sul
nuovo Paese: il
conflitto etno-tribale. Le comunità Nuer denunciano una
pulizia etnica
da parte dei Dinka, l'etnia del presidente Salva Kiir che stando alle
loro accuse starebbe dilagando. Contro lo strapotere dell'Splm/a, molti
ex comandanti hanno preso le armi e sfidato Juba, con attacchi e
imboscate che complessivamente hanno fatto 1800 morti in da gennaio a
oggi. E non è tutto. I rappresentanti della diaspora sud sudanese
appartenenti alla comunità Nuer si sono riuniti nel Minnesota, Stati
Uniti, per un forum che si preannuncia come il primo passo verso una
futura politicizzazione delle differenze etno-tribali. Oltre che con i
Nuer, i Dinka hanno problemi anche con i Bari, popolazione contadina nei
cui territori sorge la capitale Juba. Qui la lotta è per non perdere
terreni a favore di speculatori e palazzinari e bloccare l'espansione
della città. Cosa che apre la porta alla prospettiva di trasferire la
capitale in aree a maggioranza Dinka. A Juba negli ultimi mesi sono
arrivati businessman da ogni dove, soprattutto dall'Eritrea. Stanno
comprando alberghi e locali; sono i più veloci e i più sfrontati, tanto
che si parla di "mafia eritrea". Ma niente è paragonabile alla pioggia
di soldi che arriverà con l'indipendenza: 500 miliardi di dollari di
investimenti privati in cinque anni, stima il vicepresidente
Riak Machar Teny,
che accenderanno gli appetiti di una classe politica inesperta e
vorace. Mille problemi che saranno dimenticati per un giorno. Ma poi il
figlio più piccolo dell'Africa dovrà imparare a comminare con le proprie
gambe in fretta.
articolo di Alberto Tundo
fonte:
Peacereporter